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Elmo pupazzo rossoValorizzare le risorse delle differenze, e ridurne la distanza dalla cosiddetta “normalità”: la prospettiva chiede più interazione tra comunicatori ed esperti di infanzia

 

Sul tema dell’inclusione, il pupazzo Elmo batte i Teletubbies. Peppa Pig assiste alla scena e, chissà, magari la prende come una lezione da imparare.
Questa non è l’anticipazione di una prossima trasmissione televisiva per bambini, con alcuni dei loro beniamini insieme per un’originale avventura.
È piuttosto la sintesi di quello che si osserva sul rapporto tra programmi per l’infanzia e disabilità. Una connessione in parte già avviata, ma nel complesso si può fare di più.

 

Intanto, esempio positivo di inclusione è la serie statunitense “Il mondo di Elmo”: creata nel 1998, ha per protagonista un mostriciattolo rosso che esplora alcuni degli aspetti della vita quotidiana con lo sguardo tipico dell’infanzia. Lo fa coinvolgendo bambini reali, e a volte tra questi c’è chi presenta qualche disabilità: sindrome di Down, sordità, problemi di movimento. Appaiono ad esempio nelle puntate con temi “Fiori, piante e alberi”, “Giochi”, “Orecchi”. La ragione sta nell’origine della serie: nasce infatti dal programma educativo “Sesame Street”, in tv dal 1969. Nel programma compaiono i pupazzi Muppet, celebri in tutto il mondo. La connotazione formativa del programma si mostra anche includendo  persone di varie età, etnie, e con disabilità. L’obiettivo, infatti, è far capire ai bambini il valore delle differenze tra gli individui, sottolinenando che nessun modello fisico è migliore di un altro. L’idea di includere persone e protagonisti con disabilità è sostenuta in particolare da una delle autrici, Emily Kingsley, madre di un ragazzo con sindrome di Down, apparso anche nella trasmissione.

 

Passano gli anni, i palinsesti introducono nuovi programmi per l’infanzia, ma non è facile trovarvi esempi inclusivi come quelli con i Muppet nei confronti della disabilità. Eppure questo è un tema presentato spesso in televisione. C’è però un paradosso: «Di disabilità si parla in tante occasioni, ma il più delle volte mancano informazioni chiare, che facciano comprendere il livello delle proposte», commenta Daniela Lucangeli, professoressa di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione all’università di Padova. È importante, dunque, come parlare di disabilità, più che quanto parlarne: «Serve un’informazione chiara che consideri diversi casi, perché la disabilità può essere cognitiva, motoria, percettiva, può presentarsi come disordine dello sviluppo, della personalità – precisa la docente - Ognuno di questi tipi di disabilità richiede diverse strategie di aiuto. La ricerca scientifica è molto accurata e avanzata in tutti i settori, dalle scienze di tipo sanitario a quelle psicologiche, passando per quelle educative. Ciò che auspico, dunque, è una forte alleanza tra istituzioni che fanno ricerca e chi si occupa di comunicazione di massa. Tavoli congiunti con delle azioni concrete, identificabili nei programmi per l’infanzia. Una trasmissione, infatti, è efficace se è collegata a un sistema di supporto credibile di meccanismi di aiuto. Altrimenti il programma è una situazione occasionale che apparentemente affronta un problema, ma in realtà con un debole potere di incidere sull’educazione dei bambini». La scommessa è di grande valore: «Far crescere i bambini facendo loro comprendere la diversità come risorsa, per cui ognuno aiuta l’altro secondo le proprie possibilità – immagina la professoressa Lucangeli – In questo modo, crescendo, i bambini avranno un efficace strumento di collaborazione con gli altri».

 

Diversità, dunque, come ricchezza, superando l’idea di “ostacolo”, che si forma soprattutto tra gli adulti. È l’opinione raccolta tra chi lavora in uno dei tanti centri di riabilitazione per bambini disabili in Italia. Questi bambini, si sottolinea, non fanno valutazioni, non giudicano gli altri, soprattutto quando percepiscono un senso di sicurezza e accoglienza. Bene, dunque, far passare per “normalità” l’incontro con la “diversità”. Una lezione, questa, rivolta in particolare agli adulti. In fondo, come si legge nel “Piccolo Principe”: «Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi».

 

 

 

 

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Roberto Bonaldi

 

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