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L’utilizzo di un registro linguistico adeguato per promuovere i processi di inclusione scolastica: prestiamo attenzione

Capita purtroppo ancora spesso che nelle scuole si usino termini fuorvianti che, spesso anche inconsapevolmente, traducano un approccio alla disabilità meramente assistenziale o comunque inadeguato.

Espressioni come “alunni h”, “diversabile” o “diversamente abile” sono ad esempio ancora molto usati, anche se manifestano palesemente limiti concettuali che, almeno i professionisti dell’inclusione dovrebbero ormai aver ampiamente superato.

A parte l’uso del termine “handicap”, mascherato tuttavia spesso ancora con l’uso della sola h, che è ormai in disuso, pur non avendo in sé stesso, nella sua origine, alcuna connotazione negativa, tant’è vero che il suo significato è meramente “svantaggio”, per il resto permane sovente l’uso di un lessico poco attento e lusinghiero.

Proviamo ad esempio ad esaminare in breve il termine “diversamente abile”. Cosa dovrebbe significare? C’è il concetto di abilità cui si dovrebbe tendere, che sposa una logica normalizzante cui attenersi e fin qui non siamo che agli albori dei principi di integrazione. Primo stigma: dovrebbe essere abile, ma non lo è. Non solo, c’è di peggio. Poiché dovrebbe essere abile, ma non lo è, ci diciamo che ha abilità “diverse”, altre da quelle che hanno gli altri. Secondo stigma: la compensazione nelle abilità con fantomatiche abilità diverse. Come Tiresia, che poteva essere veggente proprio perché era cieco.

Anche nell’uso di superficie di termini percepiti come positivi, ma in realtà estremamente fuorvianti, possiamo leggere, a scuola come altrove, la leggerezza di chi formalmente accoglie pure la logica dell’inclusione, ma nei fatti poco si interroga su di essa.

Cos’è l’inclusione, se di parole importanti vogliamo parlare, in cosa si differenzia dall’integrazione? E’ solo un termine nuovo, più accettabile, una tendenza, un vezzo?

Inclusione è una rivoluzione copernicana; se vogliamo provare davvero ad agire nella sua direzione dobbiamo agire prima di tutto in noi stessi, a cominciare dalla stessa percezione che abbiamo delle cose. Includere è pensare a una possibilità di esserci per tutti, è progettazione universale, che prevede cittadinanza per tutti, senza più alcuna necessità normalizzante. E’ quell’ufficio postale senza scale, quella scuola senza rampe, dove ciascuno può entrare a suo modo. Un orizzonte di senso verso cui muoversi, ancora immersi nella necessità di adattamenti, ancora per molto tempo.

E quale parola dovremmo usare per nominare, perché sia una parola buona?
Potremmo dire che basta chiamare ciascuno usando il proprio nome, il nome proprio, che rappresenta la sua unicità nei contesti. J. Dewey sosteneva che tutti abbiamo bisogno di sentirci “importanti”: chiamare ogni persona per nome è il modo più immediato per dare importanza e rilievo a ciascun interlocutore, ad ogni persona.

E se proprio talvolta abbiamo bisogno di categorizzare evitiamo termini dalla ridondanza imbarazzante: basta dire che una persona ha una disabilità, in modo immediato e non accompagnato da etiche discutibili e fuorvianti.

APPROFONDIMENTI

Inclusione e integrazione

In disabili.com

Una società inclusiva passa anche per le parole che si usano in aula

Disabilità: quali sono le parole corrette da utilizzare?

Una storia infinita


Tina Naccarato

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