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Una giovane donna racconta le tante porte sbattute in faccia quando fa sapere di avere una forma grave di epilessia

Avevamo già pubblicato tre anni fa una testimonianza di Monica, una ragazza che ci raccontava cosa significasse vivere con una forma farmaco resistente di epilessia - cosa aveva significato ai tempi della scuola e dell’università: anni segnati da uno strascico di difficoltà non solo pratiche, ma anche di accettazione da parte del mondo esterno.

Ora Monica ci aggiorna sulla sua vita attuale, sulla ricerca di un lavoro, sul sacrosanto desiderio di una carriera, come qualsiasi giovane donna della sua età. Ma i toni sono ancora amarissimi, e ci riportano una realtà sulla quale dovremmo fare una seria riflessione: quella del lavoro che viene negato alle persone con disabilità.
Di seguito, pubblichiamo integralmente il contributo di Monica.

Mi chiamo Monica, ho quasi 30 anni e sono disabile al 100% a causa di una rara forma di epilessia farmaco resistente, che comporta crisi pluri-quotidiane con cadute e “passeggiate” puntuali in PS.

La mia epilessia mi ha rovinato la vita, non si trova una cura, ho provato tutti i farmaci in commercio senza risultato. Ho perso gli anni migliori della mia vita e continuo a perderli, dalle relazioni interpersonali, alle esperienze lavorative.

L’anno scorso mi sono laureata in economia e gestione aziendale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Mi sono messa subito all’opera per cercare lavoro e, uno studio commercialista della città in cui abito, aveva acconsentito a rivedermi per un secondo colloquio (il primo l’avevo sostenuto prima della laurea). Purtroppo, però, quel giorno ero stata male, con le classiche crisi “a grappolo” (un’assenza a dietro l’altra) e mia mamma aveva dovuto assistere al colloquio, con il timore che potessi stare nuovamente male in loro presenza. Durante il colloquio, mi hanno sottoposto un piccolo test, con esito positivo e sarebbero stati d’accordo ad assumermi, MA...qui arriva il bello (o forse il brutto!).

Fui costretta a dir loro della mia epilessia...ho voluto essere corretta e il risultato è stata una pedata in faccia.

Si sono tirati indietro e si sono rifiutati di assumermi, nemmeno da remoto e men che meno con la presenza di una persona A MIE SPESE che mi controllasse e mi supportasse nei piccoli movimenti, come semplicemente andare in bagno, per ragioni di privacy.

L’anno scorso, quindi, ho deciso di fare un passo in più, iscrivendomi alla magistrale Direzione e consulenza aziendale, al fine di diventare commercialista. Per diventarlo, però, servirebbe uno studio che mi assumesse per 6 mesi come tirocinante, per poi concludere il percorso dei 12 mesi prima dell’esame di stato dopo la laurea.

Nelle mie condizioni, inoltre, sarebbe necessario un’assunzione da remoto, in smart working, ma non sembra che le aziende siano molto propense a questa modalità... Ad oggi ho mandato minimo una cinquantina di curricula, ho anche sostenuto alcuni colloqui, ma appena sentono della mia invalidità e delle mie necessità, chiudono la porta.

Allora la mia domanda è: noi disabili siamo destinati ad essere emarginati? Perché nella mente delle imprese non entra in testa che là fuori, il 15% della popolazione mondiale è disabile per i più disparati motivi e ci sono milioni di persone con epilessia e che magari avrebbero bisogno di un lavoro che faccia sentire loro apprezzati per le proprie capacità? Che futuro abbiamo noi con epilessia o con invalidità, che vorremmo diventare qualcuno, crescere personalmente e professionalmente? Se le imprese continuano a metterci i bastoni tra le ruote e se le istituzioni non intervengono, quali speranze possiamo nutrire noi per il nostro futuro?


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