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L’auspicio è quello di non nascondersi dietro un rametto di mimosa l’8 marzo, ma operare perché in tutti i 365 giorni le donne abbiano eguali opportunità

Nel giorno della Festa della donna ci fermiamo a fare una analisi di ciò che dovrebbe significare non tanto festeggiare la donna, ma considerarne la condizione impegnandosi a migliorarla.
Non possiamo, a questo punto, non tornare a parlare di tutte le donne che si trovano a dover scegliere tra professione e lavoro di cura e di assistenza, quando in famiglia ci sia un figlio o una persona ammalata, anziana, con disabilità, o da assistere. Donne che spesso, non avendo altra scelta, diventano caregiver –magari a tempo pieno – a discapito di professione e vita sociale.

LE CAUSE
Le cause di questa scelta obbligata vanno ricondotte ancora una volta al portafoglio e quindi alle opportunità e ai servizi mancanti, ma anche a una cultura occupazionale che ancora fatica a essere egualitaria, e che ha riflessi sul modo in cui si percepiscono le donne stesse.
Da un punto di vista prettamente economico i conti sono presto fatti. L’Istat ha stimato il reddito medio delle famiglie italiane in circa 31mila euro l’anno (riferimento anno 2018). La spesa media di una baby sitter per 15 ore a settimana (quindi che copra il solo orario extrascolastico) è stata stimata da Assindatcolf in complessivamente oltre 7 mila euro l'anno (inclusi Tfr, tredicesima, ferie e contributi), che diventano oltre 18 mila se la lavoratrice viene invece assunta a tempo pieno (40 ore alla settimana). Stesso discorso per la colf che si occupa della casa quando si è a lavoro: oltre 9 mila euro l'anno è il costo di una lavoratrice assunta per 25 ore la settimana; 16 mila euro per 40 ore.

Ma è tra l’incontro tra le cifre di spesa e di reddito familiare che si inceppa il meccanismo: quando i soldi in casa non sono sufficienti a pagare i professionisti per la cura e l’assistenza, a rinunciare al proprio lavoro è quasi sempre la donna, perché di solito è quella che nella coppia guadagna meno, anche a parità di mansione. Si chiama Gender Pay Gap, ed è l’indicatore che misura la differenza tra quanto guadagna un uomo e quanto una donna. Eurostat attesta il gender pay gap italiano al 20,7%, posizionando l'Italia al 18° posto su 24 Paesi dell’Ue.
A incidere sulla differenza è, tra gli altri indicatori, il fatto che molte donne lavorano part–time: una scelta che è imposta dalla necessità di badare a figli e parenti, che è anche una conseguenza di sevizi mancanti.

Secondo i dati dell’Unione Europea, l’impatto della genitorialità nella partecipazione al mercato del lavoro è ancora molto diverso tra uomini e donne: solo il 65.6% delle mamme di bambini sotto i 12 anni lavora, contro un 90,3% dei papà. Questo dato riflette (e al contempo è generatore di) una disuguaglianza nella suddivisione dei compiti di gestione familiare, ma anche un segnale della mancanza di servizi e opportunità di conciliazione vita-lavoro per le famiglie. Famiglie che possono anche essere composte solamente da mamma e figlio, ad esempio. A quel punto la scelta diventa obbligata: o si lavora o ci si prende cura del figlio, del genitore, del parente.

Infine, una riflessione anche sugli aspetti culturali di questa situazione. Una ricerca commissionata da LinkedIn ha esaminato l'impatto del condizionamento sociale sulla retribuzione e la progressione di carriera delle donne in tempi di Covid-19. L'obiettivo era quello di far luce sulla disparità di riconoscimento che porta le donne a sentirsi meno meritevoli degli uomini, con ricadute dirette sulle loro carriere.
Secondo la ricerca il 47% delle donne intervistate ha ammesso di essersi sentite meno legittimate a ottenere promozioni o aumenti di stipendio sul posto di lavoro o di averlo visto provare da altri. Inoltre,mentre più della metà (51%) degli uomini intervistati ha chiesto un aumento di stipendio o una promozione al di fuori della loro revisione annuale, meno di 2 donne su 5 (37%) ha fatto lo stesso.
Nonostante le politiche di flessibilità sul posto di lavoro, un quinto (20%) delle donne concorda sul fatto che avere figli ha avuto un impatto sulla loro progressione di carriera. Anche quando il loro datore di lavoro ha implementato politiche family friendly, il prezzo che le donne sono convinte di pagare per il lavoro flessibile include l'essere viste come meno dedite al lavoro rispetto agli altri dipendenti (42%) e la mancanza di avanzamento di carriera (23%). 

Come risolvere, allora, la questione? Operando in primis sul fronte dei servizi e delle tutele da parte di un welfare che si affianca e sostiene realmente le famiglie. Ma non solo. Assicurando diritti e trattamento pensionistico a chi, per diventare caregiver familiare di un congiunto non autosufficiente, è costretto a lasciare il lavoro - e dopo una vita di accudimento si troverà anche senza pensione. Ancora, introducendo una fiscalità che renda più accessibile alle famiglie il ricorso a lavoratori domestici. Infine, lavorando tutti per smantellare retaggi culturali che considerano ancora la donna come quella più adatta al lavoro di cura e assistenza, che non diventa più scelta, ma ovvia imposizione.
Insomma, lavorando per parificare e per limare, fino ad annullare, le differenze di opportunità.
Solo allora sarà un 8 marzo tutti i giorni.

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Redazione

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