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Veronica Mattana, psicologa del lavoro, ci aiuta a capire meglio questo passaggio concettuale e sostanziale

Negli ultimi due anni siamo passati dal parlare di disability management ad affrontare, in maniera più pertinente, il ruolo del diversity management. Ma perché questo passaggio tanto terminologico quanto sostanziale? Ci basta guardarci attorno per ricavare una risposta probabilmente ovvia. In una società sempre più complessa, infatti, anche qualsiasi contesto è caratterizzato da una marcata presenza di differenze espressive della molteplicità delle soggettività sociali, culturali, individuali: genere, età, origini etniche, disabilità, orientamento sessuale, caratteristiche di personalità, stili cognitivi, livello di istruzione, background ecc.

A livello aziendale, il diversity management consiste proprio in quell’insieme di pratiche messe in atto con obiettivi di valorizzazione e rispetto di tutte queste diversità presenti nel contesto organizzativo, in grado di creare un clima aperto e inclusivo, nonché una cultura in cui i lavoratori sono promossi per i loro meriti e le opportunità di crescita e di successo alla portata di tutti.

Chi elabora, in teoria e in pratica, le strategie di diversity management è il diversity manager, che può essere interno o esterno rispetto alla compagine aziendale.

Veronica Mattana, psicologa del lavoro con un Ph.D in Psicologia delle Organizzazioni e molta esperienza nei processi di apprendimento online, ci ha aiutato ad approfondire tutto questo all’interno di unoSpeciale diversity manager, realizzato a partire dal suo e-book dal titolo Le Politiche Aziendali di Diversity Management, disponibile per il download in versione integrale per tutti i lettori di Disabili.com.

Veronica, com’è nata l’idea del tuo blog LabLavoro e la trasposizione del contenuto in un e-book?
Il blog è nato nel 2015, con l'intento di diffondere contenuti di carattere scientifico, spesso poco o per niente conosciuti al di fuori del contesto accademico, tra professionisti, imprenditori, manager, ecc. L'idea di fondo è che questi ambiti, non sempre connessi tra loro, possano dialogare e "contaminarsi" reciprocamente. Sicuramente il diversity management, di cui mi occupo da alcuni anni, costituisce un ottimo terreno fertile per questo scopo. Il blog ospita anche esperienze di buone pratiche, link a contributi di altri siti, alcune recensioni ed è possibile iscriversi alla newsletter bisettimanale per ricevere tutti gli aggiornamenti. L'e-book è una raccolta dei post pubblicati nell'arco di circa due anni in ordine sparso, a cui ho dato un indice e aggiunto l'elenco dei riferimenti bibliografici.

Quanto è stato difficile, in base alla tua esperienza, passare dall’“etichetta” disability manager a quella, più appropriata, di diversity manager?
In realtà, il passaggio dall'una all'altra di queste due espressioni è abbastanza naturale, sia perché le aziende, anche quelle di grandi dimensioni, spesso non hanno un disability manager ma un referente per la diversity (che può anche coincidere con il direttore HR), sia perché sul mio ambito specifico (la psicologia delle organizzazioni) le dinamiche e i processi che impattano su diversity e disability sono gli stessi. Mi riferisco per esempio ad aspetti come pregiudizi e stereotipi, leadership, clima, cultura, acquisizione di talenti, ecc.
Rimane sempre il fatto che quando vai a intervenire su aspetti specifici legati alla disabilità, come gli accomodamenti ragionevoli, devi avvalerti di figure specializzate (ergonomi, architetti, informatici, ecc.) in grado di individuare le soluzioni più adatte ai singoli casi.
Più in generale, possiamo anche includere il diversity management all'interno delle politiche di Responsabilità Sociale di Impresa (RSI o in inglese Corporate Social responsibility (CSR)), conosciuta in passato più per i suoi aspetti esterni (come la tutela dell'ambiente o le attività filantropiche dell'impresa), che però ha anche una componente interna, relativa appunto allo Human Resource Management.

Quali sono le maggiori difficoltà che incontrano le aziende nel recepimento delle politiche e direttive del diversity manager?
Diciamo che direttive e politiche legislative ce ne sono poche, nel senso che il disability o diversity manager non è in Italia una figura istituzionalizzata, per cui esistono gli obblighi legati alla Legge 68/99 e alcune indicazioni contenute nei decreti attuativi del Jobs Act. La questione è però posta in modo generico e non ci sono regolamenti cui far riferimento.
Detto questo, il problema di fondo è più di tipo culturale, perché la valorizzazione delle diversità e la considerazione del diversity management tra le strategie di business passa per una visione più ampia, con obiettivi a medio e lungo termine, che deve per forza appartenere ai proprietari e ai dirigenti che guidano le imprese.
Un altro problema è, inoltre, considerare il diversity management come una moda, quindi far vedere con iniziative "spot" che la propria impresa è impegnata su questi temi, ma poi non implementare attività di recruitment, sistemi di ricompense e promozioni, ecc., in linea con queste idee. Si rimane così, troppo spesso, a un livello superficiale della questione.

E quali, invece, gli esempi di approccio più virtuoso?
Gli esempi più virtuosi vengono sicuramente dalle imprese di grandi dimensioni, spesso multinazionali, che in particolare su Milano e Roma sono state negli ultimi anni promotrici di eventi di diffusione di buone pratiche. Meno appariscenti, ma non per questo meno rilevanti, sono le iniziative che si stanno via via diffondendo anche tra le piccole e medie imprese, sia tra quelle che ricorrono a certificazioni come la SA 8000 (specifica sul rispetto dei diritti umani), sia grazie ai recenti sgravi fiscali per i premi di produttività, convertiti in parte in politiche di welfare aziendale, che riguardano anche il diversity management.

Vista la tua specializzazione in particolare sugli aspetti formativi del diversity management aziendale, c’è un percorso formativo che consiglieresti a chi volesse intraprendere questo percorso?
Negli ultimi anni in Italia sono stati avviati numerosi nuovi corsi di alta formazione (perfezionamento e master), con impostazioni e approcci diversi a seconda della facoltà da cui vengono promossi. Con la S.I.Di.Ma. (società Italiana Disability Manager), di cui faccio parte, sono stati attivati diversi percorsi di alta formazione un po' in tutta Italia. C'è una forte richiesta di specializzazione su questi temi, per cui si tratta di venire incontro a esigenze anche molto diverse tra loro, in base ai settori specifici in cui si deve operare.
Definire il disability manager schematicamente come "A + B + C" non è possibile", perché se fai il disability manager in un ospedale ti occupi di problemi diversi rispetto a quello che lavora in un'impresa High Tech, piuttosto che in un comune o in una cooperativa, ecc.
Per questo, l'offerta formativa va diversificata e chi vuole seguire un corso di diversity/disability management ha la necessità di scegliere il percorso che meglio risponde ai propri bisogni professionalizanti, in base al settore in cui lavora o a quello nel quale vorrebbe inserirsi.
Ci sono poi alcune conoscenze e competenze di base che ogni diversity manager dovrebbe possedere e che dovrebbero essere contenute in ogni percorso. Infine, un corso di alta formazione su diversity e disability management deve anche necessariamente essere flessibile e personalizzabile, per rispondere al meglio ai diversi livelli di conoscenze e competenze in entrata dei corsisti.


PER APPROFONDIRE:

https://lablavoro.com


IN DISABILICOM:

Speciale Diversity Management

I primi dieci anni dei Disability Manager e le prospettive per il futuro


Alessandra Babetto

 

 

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