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Spazi, ambienti, persone in movimento, relazione, unicità dei talenti. Un neodirigente scolastico mette in campo tante e nuove idee per l’inclusione

Parlare di inclusione espone a un doppio rischio. Da una parte sussiste la possibilità non remota che il dire si faccia retorica e sfoci nel buon dire, nelle parole corrette ma sempre più vuote ed intrinsecamente inutili. Dall’altra si rischia di offrire parole al vento, nude e veritiere, ma di scarsa efficacia.

Ciò che serve, ci permettiamo di dire noi che abbiamo provato a parlare di inclusione tante volte negli anni, è un dire che diventi fatto, azione, intervento concreto e che esso abbia reale efficacia. Abbiamo voluto perciò incontrare un dirigente scolastico, da sempre impegnato già come docente nella proposta di didattiche innovative, inedite, che fanno buon uso dei contributi tecnologici per scoprire vie e possibilità per l’apprendimento ed oggi forse ancora più impegnato come dirigente, non solo nell’istituto in cui opera, ma anche nel territorio, più e meno prossimo.

A. D’Ambrosio, neodirigente dell’IC di Lozzo Atestino (PD), è infatti un vulcano di idee, tutte, sempre, totalmente e diffusamente al servizio degli alunni. Gli abbiamo chiesto un parere sull’inclusione nella scuola italiana, sulle politiche scolastiche in atto, su cosa serve e cosa manca, su cosa sarebbe necessario fare. Particolarmente interessanti sono state le risposte. Lo ringraziamo per la disponibilità.

Dirigente, qual è il suo parere sulle politiche per l’inclusione in atto per la scuola italiana?
L’Italia ha avuto idee pioneristiche per l’inclusione. Ancora oggi il nostro modello viene studiato da diversi Paesi Europei. Si tratta di una cultura significativa che abbiamo ereditato, un patrimonio encomiabile che occorre continuare a potenziare. L’introduzione dell’ICF ha qualcosa di avveniristico, mette al centro formalmente aspetti di grande rilievo su cui agire per promuovere inclusione. Ho grande preferenza per il termine innovazione, che è certamente digitale, da non intendersi però come tecnicismo, bensì come contesto di apprendimento per tutti e per ciascuno. Ormai da qualche anno, con la Direttiva Ministeriale del 27/12/12, vi è una grande attenzione alla personalizzazione, che però non deve’essere solo programmatica, ma fattiva, agita e pragmatica. In tale direzione, la scuola deve lavorare mettendo al centro alcune parole chiave: scoperta, ricerca, interazione, creatività, condivisione, collaborazione... Nel nostro Istituto, ad esempio, a breve inizierà un laboratorio con corso su ARDUINO, per la costruzione di un ausilio finalizzato a favorire la comunicazione di un ragazzo. Ricerca reale, concreta, che parte dalla classe stessa, per la classe. La scuola non deve adeguare e normalizzare, non deve medicalizzare, deve invece rispondere a tutte le specificità, fattivamente. Il docente crea contesti di apprendimento insieme ai ragazzi, realizzando così un vero e proprio artigianato digitale. Secondo l’UNESCO l’inclusione è un processo di miglioramento: è forse un concetto vago, ma indica una direzione ed essa riguarda tutti, indistintamente. Viviamo dunque in un Pase normativamente all’avanguardia in merito all’inclusione, ma non dobbiamo sottovalutare alcuni rischi e certamente quello della medicalizzazione esiste. Basti pensare al proliferare di acronimi e diagnosi.

Quali sono i punti di forza e di debolezza dell’inclusione scolastica in Italia?
Bisogna considerare la centralità dei docenti e della loro formazione, delle competenze che essi possono acquisire sull’inclusione scolastica, con cui favorirne l’implementazione nella prassi didattica. Non dobbiamo dimenticare che il core curriculum si sviluppa sostanzialmente in classe. Altri punti di forza sono certamente gli spazi e gli ambienti. Negli ultimi anni, il PNSD (Piano Nazionale Scuola Digitale) ha portato fondi per ripensare gli spazi, permettendo una crescente personalizzazione in ambienti di apprendimento adeguati. Spazi, tempi, relazioni adeguate sono essenziali per un apprendimento inclusivo. Bisogna pensare a nuove professioni, come l’architetto pedagogista, che studia e crea modi per definire gli spazi declinandoli in modalità inedite, per creare situazioni efficaci di apprendimento. L’ambiente è il terzo educatore. Deve consentire di sporcarsi le mani. Non deve deprivare nessun canale sensoriale. Ma anche lo stesso tempo destinato alle discipline scolastiche potrebbe essere ripensato, come pure il concetto di classe, innovato in gruppi eterogenei e flessibili. Ognuno deve poter andare avanti nel proprio percorso, coi propri strumenti, col proprio talento. Un altro punto di forza è la scuola che forma e si fa rete. Ciò accade con una velocità grande ed è una grande opportunità. Un dirigente scolastico deve lavorare insieme a gruppi di docenti formati e nel fare rete deve condividere le buone prassi. Centrale è perciò la collaborazione per l’inclusione. Paradossalmente, un punto di debolezza sono invece le stesse norme, perché medicali e centrate sugli strumenti, che parcellizzano, invece di estendere il concetto di inclusione. C’è poi l’alleanza educativa con le famiglie, che non dev’essere solo formale, non è solo un Patto di Corresponsabilità scritto bene, ma è soprattutto fiducia.

Come si propone di favorire il potenziamento dell’inclusione in quanto dirigente scolastico?
Il dirigente scolastico non è un burocrate. Non deve focalizzarsi solo sulle norme. Per essere credibile dev’essere esempio attivo di inclusione, deve farsi egli stesso inclusione. E’ importante, ad esempio, che fornisca documenti editabili e un sito inclusivo, che scelga arredi adeguati per ambienti inclusivi. Ciò porta naturalmente a coinvolgere tutto il personale verso azioni inclusive. Il dirigente deve favorire il contagio, innescando processi virtuosi. Deve possedere doti culturali, dev’essere un intellettuale. Deve conoscere le norme, ma anche la didattica. Deve farsi afflato educativo: non è addentro a tutto e non potrebbe esserlo, ma deve motivare, capire le risorse interne in termini di competenze e di attitudine, deve conoscere i docenti della scuola che dirige, deve saper governare i processi. In tal modo può promuovere progettualità in base alle risorse di cui la scuola dispone, per offrire opportunità eterogenee, per accogliere talenti eterogenei. Deve relazionarsi con le altre scuole, con gli altri dirigenti, con il territorio, con la rete, per mettere in circolo le buone pratiche. Il dirigente scolastico deve pure mettersi in ascolto, deve capire le domande, i bisogni e ciò che può servire per rispondere ad essi. Il dirigente scolastico non è carte perfette, ma pratica, prassi, azione didattica concreta, costitutivamente inclusiva. Quest’ultima parte dai bisogni della classe e del singolo ed è sicuramente una didattica vincente.

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Tina Naccarato


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