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Didattica a distanza e inclusione per tutti: un binomio difficile, ma non sempre impossibile

In queste ore si chiudono, metaforicamente, i cancelli di tutte le scuole d’Italia. La fine dell’anno scolastico non è stata accompagnata, stavolta, dalle urla festose dei bambini, non c’è stato quel senso di liberazione che abbiamo visto ogni anno tra i nostri adolescenti desiderosi di vita. Tutto si sta svolgendo in silenzio e se qualche festa pure c’è stata, si è svolta nelle mura domestiche dei nostri alunni e dei nostri insegnanti. Decisamente anomala questa chiusura, certamente storica, esperienza eccezionale, si spera. E si spera nel rientro in presenza, a settembre, se questo nemico oscuro e silenzioso vorrà darci pace, speranza, se la scienza avrà fatto il suo corso, se le condizioni saranno tali da evitare ancora morte, nel nostro autunno.

L’estate è sempre una pausa, lo è forse più percettivamente che realmente, lo è storicamente. Oggi nessuno si noi si concede lunghe vacanze, è cambiata la stessa idea di vacanza, rispetto alla fine del XX secolo, quando davvero l’estate era tempo lento, felice, distante da ogni caos. Oggi tutto procede in fretta, non consente tregua e questo ritmo coglie noi e i nostri figli, senza sosta. Il tempo corre, la durata impenna. Siamo qui, dentro una quotidianità agita e mobile, mai paga, che non consente pace.

Eppure, almeno nel nostro immaginario culturale, l’estate è tempo di riposo, resta solo la scuola a ricordarcelo, questa roccaforte, forse l’ultima, a dirci che il tempo dell’estate per i nostri figli dev’essere ozio, riposo, tempo lento, vita snella, leggera, piena di sete di sé stessa e nient’altro. Tempo umano, che è tale solo se pare infinito.

Le scuole chiudono e noi chiudiamo gli occhi stanchi, pallidi di monitor, rossi di fatica. E chiudendo gli occhi vorremo fermare per un momento il pensiero; ma il pensiero non ha stagioni e fluttua, si insinua, pone domande.
Cosa ne è stato della scuola? Dove sono stati i nostri ragazzi? Cos’hanno fatto quando il mondo ci diceva di proteggere le nostre vite? Dove sono andate le loro speranze nel toccare con dolore la fragilità dell’esistenza?

Ma il pensiero è molesto, ardito, malizioso e cerca ancora. Chiede dei loro visi incorniciati in un video, si interroga su voci metalliche giunte dalle maglie di una rete fredda, cerca i volti spesso assenti, sospira. Non lo sa. La scuola e la sua azione di monitoraggio sui più deboli si è fermata, non siamo più lì a dire speranza. La scuola in mille rivoli ha creato ponti, trasferte, ha teso mani da lontano. Ha atteso la presa di Giovanni, che vive in una comunità, di Luca che ha perduto il papà, di Chiara, Cinzia e della loro fragilità cognitiva, di Mohamed, giunto da lontano con la sua lingua incerta.

Davvero in questo giorno vogliamo solo chiamarli per nome. Il peso di ogni distinzione è insostenibile. Sono tutti lì, negli occhi di un adulto. Sono lì in attesa, ancora, forse, di afferrare quella mano e tornare al noto, all’aria fresca, al riso, al pianto, fuori da quelle mura che trasudano sudore, fuori da quel silenzio che ha protetto e chiuso tutti noi, in un mondo piccolo, fatto del preservare.

E ci preserveremo ancora, nel caldo abbraccio di questa lunga estate, leggeremo statistiche, coltiveremo speranze. Penseremo ai nostri nonni che sono andati nell’incredulità, nel silenzio, nell’assurdo. E porteremo però speranza: speranza che la vita possa ricominciare per tutti, che possa tornare a vivere, nella sua struggente bellezza.

No, davvero oggi non è tempo per categorizzare, non è tempo di dire chi ha subito di più. E’ invece tempo per preparare, per attendere e allestire, per curare uno strepitoso rientro alla vita. E’ tempo di dire che solo la vira genera vita e noi, che emergiamo dal silenzio di questa cupissima primavera, non possiamo che tendere le braccia ad essa e chiedere ancora vita, per tutti, in tutti i modi propri e meravigliosi di esistenza.

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Tina Naccarato
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