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Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Giorgia Rosamaria Gammino, Psicologa e Sessuologa Clinica


Sotto un profilo generale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha equiparato il diritto alla salute sessuale ai diritti umani in generale. L’OMS, infatti, definisce la sessualità come “un aspetto centrale dell’essere umano lungo tutto l’arco della vita; la sessualità comprende il sesso, l’identità e i ruoli di genere, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità e la riproduzione. La sessualità viene vissuta ed espressa in pensieri, fantasie, desideri, credenze, attitudini, valori, comportamenti, pratiche, ruoli e relazioni. Sebbene la sessualità possa includere tutte queste dimensioni, non tutte sono sempre vissute o espresse. La sessualità è influenzata dall’interazione di fattori biologici, psicologici, sociali, economici, politici, culturali, etici, giuridici, storici, religiosi e spirituali”.

Nonostante questo la sessualità delle persone con disabilità viene spesso bandita a una dimensione distaccata dalla relazionalità, non di rado ridotta a pratiche dell’igiene personale o delle funzioni corporee.
Per approfondire di più l’argomento abbiamo fatto una chiacchierata con la dott.ssa Giorgia Rosamaria Gammino, Psicologa e Sessuologa Clinica di Padova, socia del Centro Italiano di Sessuologia (CIS).     

Dott.ssa Gammino, ci racconta innanzitutto cosa fa una psicosessuologa?
In Italia non esiste una legge e un albo nazionale dedicato a questa professione, si tratta infatti più che altro di una specializzazione a cui possono avere accesso psicologi e medici. Personalmente mi occupo di consulenza e terapia psicologica e sessuologica, di sostegno di tipo educativo, anche per persone con disabilità, coppie in cui uno o entrambi i membri hanno una disabilità e famiglie di persone con disabilità.
In generale, gli psicologi applicano questo tipo di specializzazione nella clinica per tutte le età, nella ricerca e nella formazione: educazione nelle scuole, accompagnamento delle famiglie, aggiornamento per gli operatori scolastici e sanitari. Nel mio caso è stata fondamentale in particolare negli interventi nelle scuole e nella formazione di assistenti all’integrazione scolastica (figure assistenziali affiancate a bambini e ragazzi con disabilità di tipo sensoriali, o cognitivo-relazionali, in alcuni casi anche in presenza di BES e ADHD) e Operatori Socio Sanitari (OSS).

Quando le strutture di accoglienza delle persone con disabilità – siano esse scuole, centri diurni, strutture residenziali o altro – sentono il bisogno di affidarsi a una professionalità come la sua?
Normalmente si parte sempre da un bisogno emergente, molto raramente da una pianificazione fatta a partire dalla consapevolezza di imparare a educare tutti alla sessualità, disabili e non. Anche in ambienti di tipo protetto, come scuole e centri diurni o residenziali, si tende spesso a intervenire solo nel momento in cui sorge un “problema” di gestione. Mi riferisco, per esempio, alla nascita di interessi affettivi o sessuali da parte di adolescenti e adulti o alla scoperta del corpo da parte dei più piccoli, con manifestazioni che per la nostra cultura non sono adatte a una vita di comunità.
Inoltre, anche nel momento in cui si rileva la criticità, raramente si richiede di intervenire in maniera strutturata, con un percorso di educazione adeguato; più facilmente si chiede di risolvere il problema “eliminando la sessualità” e riportando il soggetto o i soggetti interessati a quella dimensione asessuata che domina molti degli stereotipi più diffusi.

Quali sono i luoghi comuni e i tabù più diffusi quando si parla di disabilità e sessualità?
Le persone con disabilità, a prescindere dall’età, sono spesso accomunate ai bambini o a “creature” asessuate, prive di pulsioni e senza percezione del proprio corpo, mentre possono invece appartenere a qualsiasi orientamento sessuale e relazionale. Non di rado, poi, vengono anche paragonate agli “angeli”, sfruttando la definizione della religione cristiana, che vede queste figure come prive di un genere definito. La propensione ad associarli a una creatura ultraterrena, tra l’altro, asseconda in modo particolare il rifiuto di qualsiasi forma di attrazione o desiderio da parte di un soggetto affetto da qualsiasi disabilità, sia essa fisica, sensoriale o cognitiva.
Questo tipo di immaginario parte, inevitabilmente, dall’assunto totalmente errato che la sessualità non si esaurisce nella relazione con l’altro ma, al contrario, ha a che fare prima di tutto con la relazione con se stessi.
Oltre agli stereotipi che negano la sessualità, ce ne sono altri che idealizzano l’aspetto relazionale della sessualità, eliminando la parte più corporea e di divertimento legata al sesso. Si crea in questi casi, da parte della persona con disabilità, una convinzione di totale coincidenza tra amore e sessualità, un’estremizzazione dell’aspetto romantico e della ricerca del principe azzurro, o del suo equivalente al femminile. Questo si riscontra di solito nel caso in cui una persona necessiti di un livello di cura elevato e prolungato nel tempo, per esempio soggetti con disabilità cognitivo-relazionali ad alto funzionamento, che ha come conseguenza frequente un’infantilizzazione del soggetto da parte del genitore o caregiver.
Nella posizione diametralmente opposta sta invece la categoria dei devotee, ovvero coloro che hanno un feticcio per le persone con disabilità e ne sono affascinate e attratte, in senso sentimentale e sessuale.

Luoghi comuni di questo tipo sono legati sempre e solo alla persona con disabilità o anche alla “coppia con disabilità”?
Un altro stereotipo è quello legato al partner. Chi sta con una persona con disabilità viene spesso “santificato”, dipinto come un eroe, come qualcuno di capace a superare “il problema”. Questo tipo di visione richiama inevitabilmente e indirettamente un’identificazione del soggetto disabile come incapace di essere attraente e interessante proprio come disabile, o anche “grazie”, alla sua disabilità.

Quanto lontani siamo dalla normalizzazione del concetto di sessualità associato alla disabilità?
In generale, per quella che è la mia esperienza, al giorno d’oggi si parla di più sia di disabilità che di sessualità, anche grazie ai social e agli attivisti “del settore”. Tuttavia, rimane ancora una forte difficoltà a livello sociale, familiare, educativo e lavorativo di accettare la dimensione sessuale e sessuata del soggetto disabile.
Pensiamo, solo per fare un esempio all’educazione sessuale nelle scuole, che in Italia non è prevista come obbligatoria da alcuna normativa. Nella mia esperienza, anche nei casi in cui venga introdotta, grazie a qualche finanziamento e dirigente scolastico più lungimirante, spesso esclude i bambini con disabilità. I preconcetti culturali, infatti, tendono a portare la struttura scolastica e le famiglie a pensare che sia talmente complesso “adattare” questo tipo di educazione al bimbo con disabilità che viene più semplice escluderlo. Questo, oltre che incidere sul bambino in questione, trasferisce anche ai compagni, agli insegnanti e alle famiglie che la sessualità sia qualcosa che non lo riguardi, contribuendo a consolidare i luoghi comuni di cui abbiamo parlato. In questo modo ci sono bambini e ragazzini che arrivano alla pubertà senza sapere che cosa sta succedendo al proprio corpo, proprio perché prima ancora della sessualità manca un’educazione alla corporeità.

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