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Mario D'Ambrosi, da oltre venti anni, presenta sulle scene europee e statunitensi il suo "teatro patologico": il suo grande riferimento culturale è stato da sempre Antonin Artaud, colui che, nel Novecento, ha indicato a tutte le avanguardie artistiche nell'evento unico e irripetibile la strada per recuperare la sacralità dell'arte antica.
Il teatro di D'Ambrosi è sempre stato caratterizzato dal grido, dalla violenza delle emozioni e dalla dolcezza della scoperta delle diversità.
Quadri di sacre rappresentazioni che, dalla scena alla platea, per ritornare sul palcoscenico, hanno sempre coinvolto il pubblico, mai spettatore inerte, ma sempre parte in causa della disperazione, del dolore e della gioia, che l'umanità dolente e gaudente dei personaggi proposti.

Il cinema di Dario D'Ambrosi comincia dove la sua ricerca teatrale era finita, restituendo al mondo dell'arte, della cultura e della politica il vero fondatore del "teatro patologico".
Con il cinema, D'Ambrosi ritrova tutti i suoi attori, volti e corpi scavati dall'interno: il lavoro sull'attore consegna al pubblico delle persone che hanno attraversato la propria disperazione e la propria gioia e che, davanti alla macchina da presa, rendono testimonianza della bellezza delle diversità umane.

La vicenda narrata dal film si svolge in un futuro senza tempo e senza spazio, che somiglia tanto a quei sogni ad occhi aperti dell'uomo contemporaneo, in cui le immagini reali della vita si confondono e si contaminano con quelle virtuali della televisione, in cui passato e presente si assomigliano e si plasmano a somiglianza reciproca, senza più profondità e memoria, senza più tempo per riposare il corpo e lo spirito, quando tutto è già dato ed è sancito in sé.
In un futuro istituzionalizzato e istituzionalizzante, il Potere è in mano ad un'èlite di scienziati.
Probabilmente, la classe medica ha preso definitivamente in mano il Potere, nel momento in cui è riuscita a debellare dal mondo la follia.
Ora, è legittimata ad intervenire in tutti i settori della vita umana e in tutti gli aspetti della psiche umana.
Il problema che si pone nel futuro ipotizzato da D'Ambrosi consiste nel dilagare della noia e della depressione.
Ecco allora il Potere, che decide di riportare nella società quella follia che, anni addietro, aveva vinto.
Ma la medicalizzazione della società non consente di ri-creare un virus sconfitto, se non ritrovando resti di esso in qualche cavia umana.
Nella società organizzata del futuro, sono sfuggiti al controllo tre persone: sono gli ultimi tre folli rimasti sulla faccia della terra.
Vengono catturati e studiati in laboratorio nei loro comportamenti rituali, stereotipati e incomprensibili all'esterno.
La loro presunta violenta follia non emerge: essi vivono sereni nei propri spazi, tempi ed equilibri personali.
Dove è finita la pazzia? Cosa è la malattia mentale?
Sono questi i quesiti che si pongono gli scienziati di fronte alla tranquillità dei modi, alla placidità dei gesti e alla serenità ieratica dei tre folli, finché uno dei medici intuisce la terapia necessaria per fare esplodere la pazzia: riportare le tre persone nella loro originaria quotidianità, ricreando la meccanicità dei gesti lavorativi, l'artificialità dei rapporti interpersonali e la inutilità dello scorrere del tempo moderno.
L'esperimento riuscirà, ma gli scienziati non riusciranno ad impadronirsi del segreto della follia, di quel "ronzio delle mosche" in testa, che molte persone con disagio psichiatrico hanno da sempre raccontato.
Il finale del film è a sorpresa nella sua semplicità.
È la giusta sintesi di una dolce poesia sulla diversità, che, talora, può diventare un pugno nello stomaco per chi non è abituato, nella propria quotidianità, a confrontarsi con l'alterità.

INFO
Ufficio stampa - Simona Marocco
Hera International Film
Tel. 06 3223248 - 3223255

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