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Tratto da ‘Il Mattino di Padova’ del 28/04/2008
Di Gianfranco Natoli

Una volta li buttavano dalla rupe Tarpea o dal monte Taigeto.
Una volta li definivano storpi, handicappati. Una volta con vergogna li nascondevano in casa, negli istituti religiosi. Una volta.
Oggi li chiamano paratetraplegici, diversamente abili e a parole ne hanno tutti un gran rispetto. Da normodotato finora ho partecipato a nove maratone: ho corso un po' in tutto il mondo: ad Atene, Roma, Stoccolma, Venezia, Londra, New York. Dal parco di Greenwich sono partito fianco a fianco a Pistorius. Insieme abbiamo attraversato il Tower Bridge, sfiorato il Big Ben.
Ma non è stato l'unico eroe del nostro tempo con il quale ho condiviso un'avventura esaltante, unica, emozionante. Ogni volta mi sono imbattuto in donne e uomini legati a strane carrozzine.
Chi supino, chi incurvato in avanti, tutti senza l'uso delle gambe.
Ho cercato di immedesimarmi, di capire le loro fatiche, i loro pensieri, le loro battaglie. E così ho deciso di provare. Grazie a Ruggero Vilnai della Off Car di Villa del Conte, che mi ha prestato una delle sue hand-bike, mi sono iscritto. Come ciclone.
La notte che precede una gara è sempre la stessa: dormo poco. Del resto la sveglia è alle 5 e un'ora dopo devo trovarmi in Prato della Valle. La spedizione parte da qui. L'hand-bike ä caricata su un camion dell'Esercito, insieme agli atleti disabili prendo posto su un camioncino super attrezzato. Mi metto in disparte, con pudore. Ma non mi vergogno di origliare. Si parla di diametro delle ruote, di atmosfere, di altri concorrenti, di chi sfrutta le scie per tagliare l'aria creandosi vantaggi. I disabili si regalano confidenze, consigli, si aiutano.

La fatica unisce a differenza di quello che accade in altri sport.
Le storie personali si intrecciano, si parla di menomazioni, di difficoltà fisiche, di come mogli e fidanzate si sobbarchino trasferte impossibili pur di seguire i loro uomini. Sono loro i veri angeli che giornalmente combattono una battaglia al fianco di chi vuole vivere da protagonista, anche cercando performance impossibili, da superman. L'arrivo a Vedelego c'infila tutti in una sorta di giro d'Italia. Biciclette dalle forme pió incredibili, aerodinamiche.
La punzonatura ä personale, ognuno controlla le proprie gomme, verifica l'assetto, lo spazio deputato alle bevande. L'esercito s'ingrossa e tutti si affrettano verso la linea di partenza, nella disperata ricerca della posizione migliore. Mi confidano che spintoni e gomitate si sprecano. Giudiziosamente scelgo di restare nelle retrovie.
 La benedizione del parroco di Vedelago regala momenti intensi. Non serve credere per sentirsi meglio. Sono circondato da uomini e donne che vivono una dimensione a me lontana, impossibile da capire. Cerco di sorridere, parlare con loro. Serenità e concentrazione mi scivolano addosso, mi prendono, vivo le loro stesse emozioni.

Essere ancorato anch'io a una carrozzella improvvisamente mi fa sentire uno di loro, non ho paura, semmai un briciolo di vergogna nell'essermi intrufolato. Ma per rispetto e ammirazione, mi autoassolvo. E poi c'è il via che mi vede ultimo, per scelta. Quando capisco che a partire sono per primi i cicloni, ovvero la mia categoria, sono costretto a fare lo slalom tra le carrozzine. Per loro lo starter è previsto cinque minuti dopo. Ho il primo impatto con una realtà evidente: sono un imbranato, e quel muovere il manubrio più o meno vorticosamente è del tutto improvvisato.
Del resto ho potuto fare solo un test nei giorni scorsi. Il fiato c'è, la forza nelle braccia un po' meno.
Parto, nei primi chilometri vado cauto.
Ben presto i cicloni veri, quelli seri, mi staccano. Riesco solo a rintuzzare l'attacco di una dozzina di atleti che tengo distanti. La mia è una corsa solitaria, accompagnata dai fischietti e gli applausi. La gente è stupenda.

 
Complice la mia solitudine a Loreggia e Camposampiero sono accolto come un eroe. Vorrei fermarmi e abbracciarli uno ad uno. Non oso per non rischiare di essere preso a male parole. Rispondo agli incitamenti mandando baci. Attorno al ventesimo chilometro appare al mio fianco un ciclista. E' Delfino di Vedelago, un pensionato gentilissimo che mi incita, mi conforta. A lui confido la mia pazza idea di giornalista normodotato che si è messo in testa di correre con i disabili, per i disabili. Vedo Padova, impreco un po' per i ciottoli, per le tante buche, ma Prato della Valle è là. Finalmente arrivo. Il tempo è dignitoso, poco più di due ore e quindici minuti. Mi sento un eroe anch'io.
Una ragazza mi corre incontro, mi stampa un sorriso e m'infila una medaglia al collo.
Quando mi alzo dalla carrozzina per poco non sviene.

INFO:

Il sito del Mattino di Padova

Il sito della Maratona di sant’Antonio

Con questo articolo vi avevamo presentato l’evento 2008:
ZANARDI: «CHE EMOZIONE CORRERE A PADOVA»


[Gianfranco Natoli]

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