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SYDNEY - La regina della penombra casca davanti al buffet dei broccoli e delle carote, si rialza e continua. "Correre a un'Olimpiade e' niente, e' distinguere tra le pietanze e i contorni al self service del Villaggio, il mio dramma quotidiano". Se dovessimo dar retta al programma ufficiale delle Olimpiadi lei, Marla Runyan, dottoressa con master nell'educazione dei disabili, sarebbe stata soltanto una delle tante donne che ieri si sono sgomitate per qualificarsi nella gara dei mille e cinquecento metri, ma le cifre della sua vittoria sono già scritte per sempre nell'albo dei record e nessuna atleta potra' batterla: 1/20esimo di vista dall'occhio destro, 1/30esimo dal sinistro. Praticamente, il buio. Marla Runyan e' la prima atleta cieca nella storia delle Olimpiadi dei cosiddetti "normali".


Dice, e dobbiamo pur crederle visto che si e' qualificata con merito e cronometro nella squadra delle mezzofondiste americane, che soltanto quando corre "ci vede" e il battere ritmico dei piedi sulla pista sintetica e' il metronomo di una libertà dall'incubo della penombra che la avvolge da quando aveva sei anni. Correre un'Olimpiade e' la liberazione dal mondo di smog perenne che inghiotte i volti, le figure, il cielo e i vassoi delle verdure al self service del Villaggio Olimpico, dove Marla Runyan combatte da dieci giorni la sua battaglia quotidiana per distinguere i piselli dalle polpette, per infilare la porta senza dare una capocciata contro lo stipite, per non cadere sui gradini, per vedere che ore sono.


In questo mondo dello sport estremo ed esasperato, dove è considerato "normale" saltare l'altezza di due piani appesi a uno stecchino flessibile di plastica, sollevare tre quintali di ferro o afferrare per i testicoli un avversario sotto l'acqua della pallanuoto, la signora delle nebbie non è "normale" perché ha una di quelle malattie con un nome di persona, che non sono mai una buona notizia per chi le ha. La sua si chiama "morbo di Stargardt" e questa carogna di un signor Stargardt le toglie ogni anno, ogni giorno, da quando era in prima elementare, un po' di luce.


Oggi, a 31 anni, Marla e' "legalmente cieca", ma e' anche legalmente troppo veloce per partecipare ancora alle Paraolimpiadi dove vinceva troppo. Brancolando, incespicando, "immaginando il traguardo" come dice lei, rompendosi un ginocchio e un piede, come le accadde quasi che la cecita' non bastasse, e' entrata nella nazionale americana. "Gioco a mosca cieca con il traguardo e qualche volta lo acchiappo".


Al Villaggio Olimpico dei "fortissimi, altissimi e sanissimi" non ci sono molte mani che la assistano o cicalini elettronici, come ai semafori, che la aiutino ad attraversare la strada del pasto quotidiano senza essere investita dai cavolini di Bruxelles che a lei, viva l'onestà, "fanno schifo". Non c'e' pieta' per i deboli, in questo universo di forti e lei non la vorrebbe. Non chiede neppure aiuto ai vicini, nella fila del self service, e prende quello che capita. "Mi sbaglio regolarmente a prendere il mangiare e mi devo alzare molte volte per tornare al buffet a cambiare i cavolini con le carote. Fa bene alle gambe".


Nella tasca della tuta porta, come tutti gli olimpionici, un telefonino regalato dal telesponsors di questi Giochi australiani, ma lei non si prende mai la briga di rispondere. Non vede quei maledetti numerini sui tastini, ne' le letterine sullo schermino. Soltanto alla notte, quando e' in camera da sola, prende una lente da ingrandimento da orafo e gioca al lotto con i tastini per chiamare casa in America. Piu' di un americano è stato svegliato nel cuore della notte da Marla che sbaglia a diteggiare.


Deve andar forte, in pista, perche' corre come corrono i puledrini seguendo la madre, aggrappandosi al tonfo dei passi altrui e al calore del corpo di chi le corre accanto per non perdersi e trovare la strada che neppure le sue lenti a contatto specialissime illuminano.


Non vincerà, perche' non e' la piu forte, ma stara' disperatamente con il gruppo che senza volerlo la protegge e che e' il suo bastone nella nebbia, almeno fino all'ultimo rettilineo, quando sente la voce del suo allenatore che l'aspetta oltre il traguardo, nella prima fila degli spettatori e la guida con la voce e le urla nell'ultimo tratto. Non sempre e' facile distinguere la voce nella folla. Quando vinse una gara in America, scambio' la voce di un altro per quella del suo coach e finì nella braccia di un uomo sbagliato e molto meravigliato.


Finge di seccarsi con noi giornalisti che ripetiamo la sua storia, perché non vuole essere patetica, perché non si considera una "cieca che corre alle Olimpiadi", ma una che corre alle Olimpiadi ed e' cieca, come si puo' essere bionde o brune o alte o corte. E sono tutti così questi atleti del nuovo tempo dove il confine tra la "normalita'" e la "anormalita'" si sta confondendo come le pietanze del buffet agli occhi di Marla Runyan e le limitazioni che ieri sarebbero state paralizzanti o vergognose, divengono semplici ostacoli in più da saltare, con un legamento scollato o una giuntura dolente.


Sulle acque del canottaggio, nella fatica bestiale della voga per due chilometri, un'altra americana, Missy Ryan, ha vinto la medaglia d'argento. L'ha vinta senza un rene. Lo aveva regalato due anni or sono al fratello malato, per farlo vivere. Eppure ha fatto meglio qui a Sydney, con un rene solo, di quanto avesse fatto ad Atlanta, quando ne aveva due.


Nella piscina del nuoto, Perkin il sudafricano arrivato secondo nella rana dietro Domenico Fioravanti, ha fatto la sua conferenza stampa parlando con le mani, perche' e' sordomuto e non ha nessun timore o pudore di mugolare e gesticolare davanti alle telecamere.
Come Marla, ha l'allegria della sua debolezza, la serenita' del suo handicap battuto. Hall, primo nei cinquanta metri a stile libero, e' seriamente diabetico. Abbagnale, il nostro oro, ha superato una trombosi per tornare a vogare e vincere. E quando vedremo Marla correre per i quattro minuti della sua corsa a mosca cieca, faremo il tifo per lei perche' non inciampi, non caschi e non travolga le altre ("se c'e' un incidente in pista, danno sempre la colpa a me, eh gia', dicono, e' colpa di quella cieca"), perché vinca la sua medaglia, che è arrivare in piedi al traguardo in questa sua ultima Olimpiade, prima che quella carogna del signor Stargardt spenga la luce.


Vittorio Zucconi

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