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Nella scuola inclusiva il rapporto e la socializzazione con i pari sono fondamentali. Non sempre, però, si realizzano facilmente e si registrano casi di bullismo

Nei dibattiti sull’inclusione scolastica che spesso leggiamo sui social network o in altri contesti, si sottolinea costantemente e da più parti l’importanza che in essa assumono le relazioni tra i vari soggetti coinvolti. E’ infatti essenziale per la partecipazione e la condivisione, riuscire a stabilire innanzitutto delle buone relazioni, in primo luogo tra gli alunni, ma anche tra i docenti e tra i genitori, vale a dire tra quelli che potremmo definire gruppi di pari. Naturalmente, va da sé, altrettanto essenziali appaiono i rapporti di collaborazione e co-costruzione tra i diversi gruppi, in modo da creare ambienti di natura virtuosa con al centro la stessa appartenenza, nonché l’accoglienza e la condivisione.

Nelle prossime settimane, pertanto, ci occuperemo proprio di tali aspetti, evidenziando prassi buone e consolidate, ma anche elementi di criticità, a cominciare dalle relazioni tra i compagni di classe.  E’ sufficiente, infatti, che un alunno venga inserito o integrato in una classe per essere realmente incluso? E’ sufficiente lavorare in modo adeguato e pertinente, garantendo l’apprendimento, oppure c’è bisogno di lavorare a fondo e di più sulla socializzazione, al fine di creare relazioni stabili e realmente empatiche? Se la cronaca ci racconta anche episodi di esclusione, abusi o bullismo, c’è qualcosa che la scuola deve provare a fare per superare tali anomalie nelle naturali relazioni tra ragazzi?

La legge 104/92 (art.12, co 3), con il linguaggio proprio del suo tempo, così dispone con grande precisione: l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione.

Possiamo dire che normalmente si tende a soddisfare appieno il primo aspetto e che certamente si promuove in maniera specifica il secondo, ma le relazioni e la socializzazione vengono sempre adeguatamente favorite, o piuttosto la frenesia dei tempi moderni tende invece ai meri risultati più immediatamente percettibili? Le famiglie chiedono riscontri sull’apprendimento, sulle autonomine nel comunicare, ma allo stesso modo si interrogano sui rapporti che i loro figli con disabilità hanno con i compagni? Si chiedono se il clima della classe ha maturato una tale empatia da consentire relazioni, vicinanze, amicizie reali anche per i loro figli? I docenti se lo chiedono? Gli insegnanti di sostegno, chiamati appositamente per favorire i processi di inclusione nelle classi, riescono a lavorare anche su questo? Sono messi nelle condizioni di farlo? Si potrebbe proseguire con tante altre domande e purtroppo, molte, in tanti casi avrebbero mezze risposte, mentre in altri non ne avrebbero affatto.

A fine settembre un ragazzo con autismo è stato picchiato da un compagno e i docenti hanno deciso che il provvedimento per quest’ultimo dovesse essere assistere un alunno con disabilità per due settimane. Alcuni articoli hanno parlato di una punizione, altri di una lezione, cioè di finalità educativa e non punitiva. Proviamo a pensare che il Consiglio dei Docenti abbia fatto questa scelta proprio per mettere questo ragazzo più a contatto con la diversità e con la disabilità, per aiutarlo a renderlo più consapevole delle difficoltà altrui. Empatia, lo ripetiamo, se manca facciamo poco. Occorre necessariamente promuoverla.

Ancora più recente è la vicenda di Elba: qui non si fa riferimento ad una disabilità, ma anche in questo caso un ragazzo ha picchiato un compagno e la scuola ha deciso per i lavori socialmente utili, in un centro per anziani o al centro diurno. Si tratta di un vero e proprio progetto che pare funzionare bene: la dirigente assicura che dopo questa esperienza altamente  formativa i ragazzi non prendono più note.
Mettersi nei panni dell’altro, capire le difficoltà altrui. E’ questa la via per l’empatia. Se riusciamo a stimolare la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona possiamo forse aiutare anche a capire ciò che prova, le sue gioie, il suo dolore. Possiamo entrare nel suo mondo, comprenderlo. E restarci.

La scuola non può esimersi.

APPROFONDIMENTI

Ragazzo con autismo picchiato a scuola

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Ho un compagno speciale

Tina Naccarato

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