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La tragica storia di Vincent Humbert ha suscitato un acceso dibattito sull'eutanasia: ci si chiede se handicap gravi compromettano a tal punto la dignità di chi li porta da rendere necessaria  l'interruzione di una vita inutile.

Ma forse quello che è successo a Parigi non interroga, solo, sui codici, o sui processi da celebrare, ma, piuttosto, sulla condizione di un giovane che aveva davanti a sé una vita intera e che non è stato messo nelle condizioni di viverla.

Vincent non è stato certo dimenticato: sono note le sue richieste di "grazia" al presidente francese Chirac ed i media si erano già occupati della sua storia.
Il suo è divenuto un "caso", uno di quelli su cui si discute e si scrivono editoriali, ma quello di Vincent non è tanto un problema da giuristi, quanto l'epilogo tragico di una storia fatta di solitudine e di risposte non date alle speranze di vita di un ragazzo di vent'anni, a cui nessuno ha saputo offrire un'alternativa valida alla morte.

Il 2003 è stato proclamato Anno Europeo delle Persone con Disabilità, ma sembra che le nostre Società europee non si siano fermate a riflettere a sufficienza sulla condizione dei disabili, dal momento che continuano a ripetersi storie come quella di Vincent Humbert.
C'è un'incapacità culturale di comprendere l'handicap, che nasce dall'incapacità di ascolto.
Di fronte agli handicappati, ed alla sofferenza che essi portano su di sé, si prova imbarazzo e si preferisce passare oltre.
L'handicap è spesso considerato una maledizione: una condanna che rende inutile ed insopportabile vivere, ma quella delle persone con handicap, anche gravi, non è mai non-vita, anche se a volte può, superficialmente, sembrarlo.
La vita ha potenzialità straordinarie anche quando è oppressa, umiliata, appesantita dal bisogno, e sembra davvero già poca.
Basterebbe ascoltare i disabili, lasciar loro la possibilità di esprimersi, per rendersene conto.

La condizione di chi è disabile non è certo semplice e non è semplice viver loro accanto.
La famiglia è troppo spesso lasciata sola nelle scelte difficili, che diventano più difficili quando aumentano gli anni e non si vedono soluzioni per i propri figli non autosufficienti.

Non c'è da giustificare, ma c'è da capire.
La disperazione e i gesti disperati non possono essere l'ultima parola.
Ma proprio per questo non si possono lasciare sole le famiglie a gestire problemi a volte troppo complessi, con carichi di sofferenza, dubbi, incertezze, fatica di vivere che possono diventare schiaccianti.

Questa vicenda chiede a ciascuno, a tutti, di fermarsi un attimo a pensare e di non allontanare il dramma della famiglia di Vincent Humbert.

Perché la disperazione non sia l'ultima parola, occorre creare una rete di protezione per chi vive il dramma della malattia nella propria vita o nella propria casa.
E' una rete che ha bisogno di tutti, di tante maglie con nomi e ruoli diversi: famiglia, vicini, simpatia attorno, servizi sociali, istituzioni, società civile nel suo complesso, in un clima mutato.
Questa rete di protezione e di solidarietà è il contrario dell'indifferenza e della solitudine in cui si è quasi sempre lasciati quando un problema è troppo grande.
È responsabilità dei servizi sociali, ma anche di ognuno di noi e di un clima, amichevole, da creare.
Non si scioglie l'handicap, ma anche il più pesante diventa più sopportabile.

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