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paziente in ospedale Marina Cometto: “Mia figlia muore e nessuno si vuole prendere la responsabilità di farle esami invasivi per sapere cos’ha”

 

Quella della cura dei “disabili non collaboranti”, ovvero di quelle persone che a causa di gravi deficit fisici o intellettivi non sono collaboranti nel corso di interventi sanitari, diagnostici ecc  – che possono essere anche, banalmente, una visita dal dentista – è una questione seria.

I pazienti di questo tipo richiedono infatti un approccio professionale particolare e adeguato, in strutture attrezzate - sia in termini di strumentazioni che di personale - a gestirne le necessità. Innanzitutto perché per trattarlo può essere necessaria la sedazione (lieve o moderata) o l’anestesia generale, per consentire al medico di effettuare l’esame o l’intervento. Questo a seconda del grado di non collaborazione del paziente. Il problema è che trattare una persona non collaborante richiede spazi e competenze che non sono sempre facilmente reperibili. E se le strutture pubbliche non lo fanno, l’unica soluzione (anche questa non sempre disponibile) è quella di rivolgersi al privato, con un lievitare dei costi, della frustrazione, del senso di ingiustizia.

Le famiglie sono quindi costrette a sacrifici, a peregrinazioni, a estenuanti battaglie per vedere curati i loro figli, mariti, genitori. Un caso di questi giorni è quello della “denuncia” di Marina Cometto, mamma di una donna di quarant’anni affetta da Sindrome di Rett, che sul suo profilo di Facebook ha lanciato un appello affinchè sua figlia, disabile grave non collaborante, venisse accettata e sottoposta a esami diagnostici in un ospedale del Piemonte, dopo un paio di rifiuti di da parte di nosocomi locali, a seguito di una dimissione ospedaliera ritenuta frettolosa dalla madre. Così Marina:

Mia figlia muore e nessuno si vuole prendere la responsabilità di farle esami invasivi per sapere cos’ha.
Mia figlia Claudia  sta male, molto male, ha la sindrome di Rett che l'ha resa non autosufficiente. Lei non è in grado di spiegare i sintomi o il dolore che prova, sta a noi ipoteticamente sani interpretare i segni che lei lancia, tramite gli occhi, il sorriso o la sofferenza che dimostra a seconda dei momenti.

Claudia è da metà settembre che sta male: lei che beveva dieci vasetti acqua gel al giorno, che mangiava pranzo e cena abbondanti e volentieri, che nel pomeriggio beveva il frullato di frutta volentieri, ha iniziato a rifiutare il cibo, poi l’acqua, fino a non alimentarsi più per niente.  Abbiamo insistito per tre giorni poi l’abbiamo portata al Pronto Soccorso, è stata ricoverata per dodici giorni, alimentata tramite catetere venoso centrale, e poi dimessa: secondo i medici la causa di tutto ciò erano feci ferme. La relazione di dimissioni però evidenzia molte altre cose, mai espresse a voce. Ci è sembrato un comportamento per liberarsi di un paziente scomodo.

Claudia sembrava riprendere a mangiare, e intanto ho cercato di trovare un ospedale che potesse eseguire in regime di ricovero tutti gli esami necessari che potessero permettere una diagnosi certa, mi sono recata in un altro presidio convenzionato con la Regione Piemonte dove anni prima Claudia è stata operata brillantemente, ma anche qui mi hanno detto che i pazienti complessi non li accettano più, consigliandomi di rivolgermi all’ospedale Molinette o Giovanni Bosco .

Ora Claudia rifiuta nuovamente cibo e acqua e ho timore che possa ricadere in condizioni precarie che non permettano di eseguire esami in sedazione come lei ha bisogno. QUINDI CHIEDO CHE LA SANITA’ PIEMONTESE SI PRENDA LE RESPONSABILITA’ DOVUTE E DIAGNOSTICHI E CURI CLAUDIA ADEGUATAMENTE. NON VOGLIO RISARCIMENTI POSTUMI, MA SALVARE LA VITA DI CLAUDIA!"


A questo appello di Marina è seguito un ricovero presso l’ospedale Molinette di Torino. E’ risultato che Claudia ha un'infezione importante. E ora il problema è scoprire dove. Altro problema è che ci sono alcuni antibiotici che Claudia non può assumere.

Claudia intanto è lì, non può comunicare se e dove prova dolore, se e quando ha fame, sete, bisogni. La famiglia interpreta i segnali che ai più sfuggono; i medici esaminano  e cercano la soluzione. In tutto questo, una battaglia per il diritto ad essere curata.


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Redazione


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